Un testo di Roger Rueff, debuttato negli U.S.A nel 1992 e ora messo in scena al Piccolo Eliseo di Roma. Nella doppia veste di regista e attore, c’è Danilo Nigrelli, recente – e indimenticato - Edoardo II latelliano.
Finalmente un giusto e sacrosanto microfono alla drammaturgia contemporanea, in una cartellonistica spesso obsoleta, troppo legata al passato e poco incline ai contemporanei. Ecco quindi "Hospitality Suite", dall'8 al 26 novembre a Roma. Nigrelli si prepara a una sfida con un testo che viene rappresentato per la prima volta in Italia: finora è stato portato in scena solo negli U.S.A. L'occasione della prima italiana vede anche la presenza Rueff, l'autore, arrivato in Italia nei giorni scorsi.
Testo crudele e intensissimo, sugli uomini, il mondo del lavoro e il risultato di questo connubio: età diverse, approcci diversi, caratteri diversi. Larry, Phil e Bob si preparano al job meeting con il megaboss dell’azienda. I tre studiano e organizzano l’incontro proprio in questa Hospitality suite, una stanza d’albergo al 26esimo piano dell’Holiday Inn di una città del Kansas. Molto si dice e molto si fa in questa room; si dipanano e si mostrano i rapporti sociali, lavorativi e umani dei tre uomini, ognuno alle prese con il proprio personale approccio al lavoro.
Ecco le note di regia di Nigrelli su questo progetto:
“Ammetto di aver provato sentimenti contrastanti, dopo aver letto per la prima volta questo testo. Ambientazione sociale interessante, personaggi intriganti, una storia ben congegnata con finale dolce/amaro, dialoghi serrati con punte anche di comicità. Eppure la sensazione era che non avesse “peso”, mi sembrava un testo privo di un’anima così palpitante.
Mi sbagliavo. E molto, anche.
Ho dovuto rileggerlo molte volte per capire che l’amante “freddo” dei due ero io. Non ero riuscito a cogliere l’essenza di questo testo perché ero pieno di pregiudizi sulla vita dei suoi protagonisti, sulla società in cui essi agivano, su quello che dicevano e su come lo dicevano. In sostanza, avevo dei profondi pregiudizi sull’America.
La stavo giudicando a priori, l’avevo già giudicata e senza appello. Non riuscivo ad analizzarla nella sua complessità, compito già di per sé estremamente difficile, al quale io aggiungevo un malcelato senso di superiorità nei confronti dell’autore. La verità è che non permettevo a Rueff nemmeno di trattarli, temi come la Vita, la Morte e Dio.
Perché? Perché ero così prevenuto?
Erano le mie considerazioni politiche così fortemente critiche nei confronti degli Stati Uniti, del tipo USA GO HOME? Erano le centinaia di luoghi comuni assorbite negli anni, ascoltando o leggendo le considerazioni sugli States di storici, giornalisti in sito, mass-mediologi, esperti di costume, politici e via dicendo? Era l’inconscia sicurezza di un qualsiasi membro del Vecchio Continente che questi giovanotti, con solo cinquecento anni di vita, certe cose è meglio che vengano ad impararle da noi? Sarà stata la somma di tutto questo ed altro ancora, ma non riuscivo proprio a “sentire” questa pièce.
C’è voluta una costosa umiltà. Ho dovuto ammettere che in fondo non sapevo nulla dell’America, degli Americani, di come vivono, di quello che pensano, di quello che vogliono per i propri figli… e guarda caso questa è proprio una battuta del testo.
Non so niente e giudico. Eppure sono pieno di informazioni su di loro. Loro, quelli che dicono che ci abbiano così influenzato, loro, i nostri alleati da quando sono nato e anche da prima. Non so nulla e li giudico. Penso con vergogna cosa possa “covare” in me nei confronti di un senegalese, per esempio, del quale davvero non so nulla…
Per fortuna, ad un certo punto, ha cominciato a ritornare a galla, lentamente, la mia vita con l’America, i miei rapporti con lei negli anni. Un processo faticoso, che mi ha costretto a scalzare la miriade di stupidaggini e di pre-giudizi, la maggior parte pre-cotti da altri, che affollavano rumorosi la mia testa.
Mi sono ricordato i libri, sì, i romanzi, le liriche, le canzoni, i film, la musica, le imprese, che questo popolo stra-ordinario, negli anni, mi aveva regalato. Ho rivissuto i racconti di mio padre ragazzotto di Sicilia e le “cammelle” che gli regalavano i soldati con “iggippi”, ho risentito i brividi degli inverni del mio scontento scaldati da Fitzgerald, dal Jazz, da Steinbeck, da Keith Jarret, dal Boss e da quanti altri ancora… mio Dio! (come si dice da quelle parti). Mi sono ricordato che il mio perenne tentativo di rimanere “sulla strada” aveva radici precise. Avevo dimenticato anche di essere cresciuto in una cittadina italiana che Luciano Branciardi scriveva e sognava essere come Kansas City, dove io avevo giocato a baseball per più di dieci anni.
Dovevo solo essere sincero con me stesso. Anzi, onesto, e ammettere quanto nella mia vita ci fosse dell’America.
Onestà. Questa parola che in noi, da noi, da questa parte dell’Oceano, sembra diventata obsoleta e un po’ moralistica. Mentre in America è ancora così solida, così segnante. Ad un tratto, mi sembra la parola spartiacque di una società, di un popolo intero. O sei di qua o sei di là. E quella parola, come un monolite, lì, nel mezzo. Quanto sanno essere onesti nella loro crudeltà e quanto nella loro levità?
Di questo, parla la pièce. Questo è il nucleo, attorno al quale gira la storia di questi tre uomini che aspettano. L’Onestà.
L’unica cosa davvero onesta che potevo fare era affrontare questo testo come un “classico” del teatro. Non un classico inglese, né francese, russo o tedesco. Un classico americano. Con i miei compagni di viaggio, abbiamo provato innanzitutto a capire com’era scritto questo testo, quali dinamiche da europei ci erano sconosciute, quali le nostre distorsioni interpretative. Per poi andare a costruire o decostruire, rispettando e valutando, le differenze e le similitudini con la loro scuola di recitazione, il Metodo.
Avevo visto il film “The Big Kahuna” tratto da questo testo e mi era parso molto europeo e molto teatrale. Ho provato a fare uno spettacolo un po’ americano e un po’ cinematografico.
Abbiamo riempito di vita questi personaggi così di parola. Li abbiamo riempiti di vita americana, questo glielo dovevamo, per poi tentare di farli vivere una storia che in realtà è così universale, così globale, eppure così tutta loro.
Non li conosco di più adesso gli Americani, non penso nemmeno di aver avuto illuminanti intuizioni storico-filosofico-sociologiche, né di aver costruito un gioiello teatrale. Adesso, però, dopo questo viaggio, quando leggo o sento qualcosa su di loro, non posso fare a meno di ricordare una canzone di Woody Guthrie che si intitola “This Land is your Land”. Questa terra è la tua terra, cantava, ed era la sua America, che nuovamente è anche un po’ la mia, come lo è il Senegal e pure l’Iraq."
Un lavoro di sicuro impatto, da non perdere.
A giorni sarà pubblicata una lunga e inedita intervista a Danilo Nigrelli.
Teatro